30 Dicembre 2010 in Blog, Tradizioni

Il giogo e la sua maledizione

Ho riascoltato sere fa un’intervista alla scrittrice Michela Murgia, di origini sarde. E’ nota ai più per aver vinto il premio Campiello nel 2010 con un romanzo che sviluppa una storia calata nelle tradizioni della Sardegna, tra le meno raccontate e quasi al limite della leggenda. Mi è tornata alla mente la trama del libro, la storia di una bambina cresciuta da una donna sola che nella comunità svolge un ruolo da brivido. Anche la piccola protagonista un giorno svolgerà quel ruolo e mentre vive affianco alla sua nuova madre adottiva osserva inconsapevole lo strano sguardo dei concittadini quando la incrociano.

E’ la figura della Accabadora, la donna che viene chiamata al capezzale dei moribondi per dare la buona morte. Una donna da la vita, una donna da la morte. Una donna pratica, che non conosce esitazioni, come una levatrice di paese, solo che si occupa dei moribondi che proseguono la loro agonia in modo eccessivo, quasi inspiegabile.

Il romanzo è intriso di riferimenti, ricco di simbologia e alla fine lascia poco alla immaginazione e molto ai brividi. Tra le cause dell’infinità agonia che richiedono la chiamata della Terminatrice, la scrittrice ne inserisce alcune che ritrovo anche nelle tradizioni orali salentine. Di comune, in moltissime società, la mancata esalazione dell’anima è sempre legata a un giudizio negativo sulla vita del moribondo. La sospensione nell’inermità e forse nel dolore, sono sempre associate a peccati pregressi di particolare gravità che impediscono all’anima del moribondo di uscire concedendo al malcapitato una buona morte.
Il rito della eutanasia pertanto è associato a ulteriori gesti simbolici riparatori giacché evidentemente le normali preghiere non hanno avuto effetto. Tra i motivi di sospensione nello stato agonico c’è l’aver ucciso un uomo o l’aver bruciato in vita un giogo. Se il primo motivo è credibile, il secondo appare quasi stravagante. Aver bruciato in vita quel pezzo di legno che legato ai buoi permetteva di trainare i carri o arare la terra è per me quasi inspiegabile.
Questa tradizione orale è presente, oltre che nell’isola della scrittrice, anche nel nostro Salento, facendo intuire una diffusione della leggenda in un ambito almeno mediterraneo. Ogni volta che nei discorsi tra grandi si parlava di moribondi, spesso con quel caratteristico distacco di generazioni che hanno visto anche troppi lutti, il solito commento era sempre la constatazione che al moribondo “non gli usciva l’anima”. E poi mia madre mi ricordava sempre la storia del gioco, solo quella, per non farmi venire strane idee sugli altri possibili peccati del povero moribondo. Chi un giorno nella sua vita bruciava un giogo, che nel mio dialetto ha uno strano  suono accentato (sciu’), non può morire serenamente, la sua agonia sarà lunghissima. Forse una leggenda che trae l’origine dall’importanza dell’oggetto nell’economia contadina, un oggetto quasi sacro che non andava bruciato neppure per i più elementari e disperati dei bisogni umani.
Spero che qualcuno leggendo questo articolo sappia finalmente darmi una risposta.

Giorni fa ho visitato una vecchia azienda agricola, e appeso al muro, quasi marcio, c’era un vecchio giogo. Ho chiesto al massaro perché lo teneva ancora li appeso e non l’avesse buttato via. Si è ricordato anche lui della vecchia leggenda e mi ha detto che è meglio che resti li a consumarsi da solo. Lui, ormai in età di pensione, non lo aveva mai utilizzato, era addirittura di suo padre. L’ultima cosa che ricordava di aver usato trainata da una vacca era una vecchia mietitrice e per la bisogna aveva usato un solo tiro al posto della tradizionale coppia di animali. Non un giogo, dunque, ma un semicollare di legno che era pure lui appeso sullo stesso muro. Mi ha aggiunto pure che il termine giusto da usare in questo caso non era il noto maschile sciu’ bensì il femminile cameddrha.

In paese ho trovato anziani nati negli anni ’20 che ricordano molto bene l’uso del bue o della vacca nell’aratura o nel traino, ma con l’uso del classico collare imbottito come per i cavalli opportunamente conformato all’anatomia dei bovini.




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