23 Giugno 2014 in Blog, Territorio

Stat vinea pristina nomine, nomina nuda tenemus

Quale è il rapporto di questo pezzo del Salento con il vino se questo lembo della Provincia di Lecce appare all’occhio poverissimo di vigneti e tuttavia ha il proprio territorio pieno di toponimi rifeririti alla pianta della vite ? Vitigliano, Vignacastrisi, Vignenove, Vignaraggia, Vignavitrana, Vignenove, Vignali, Vigne, ecc.. , non c’è lembo di questo Salento dove la terra, insolitamente fertile e profonda,  non sia nominata con qualche desinenza della pianta dell’uva. Questo oggi è il regno degli ulivi, degli incolti, della terra cattiva e rocciosa, della poca terra e della poca acqua, di un’agricoltura di sopravvivenza e di emigrazione, di un rapporto col mare primordiale e spesso mortale. E che fu poi la terra del tabacco e oggi dell’abbandono.

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Questi nomi antichi ci raccontano una storia ben diversa, di un rapporto con la vite molto più forte e quotidiano di quello che possiamo sospettare e  di ricordi che vanno perdendosi così come anneriscono e marciscono le botti di legno nelle cantine delle vecchie case disabitate, le più fortunate ridotte a solo feticcio.

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Il vino ha viaggiato e riposato in tanti modi, negli impasti di argilla preistorica, nelle coppe raffinate dei greci, nelle anfore romane, negli otri di pelle animale, nel legno delle botti, nelle zucche svuotate, nel vetro, nella plastica e oggi anche nell’acciaio. Ma in questo secolo appena passato e in questo lembo di Salento, potremmo dividere il tempo del vino per generazioni e ad ogni generazione assegnare un contenitore ideale cominciando dalla generazione arcaica degli orci di terracotta pieni di vino sempre e solo rosso, con la bocca sigillata da un piatto di cucina ed un impasto di cenere, il foro col paletto in basso per lo spillo. Oggi, ridotti a simulacri, si vendono ai turisti per arredare le loro case di mare o le ville di campagna. Appartenevano a piccoli possidenti che avevano la fortuna di curare un piccolo vigneto di proprietà o in colonia, che vinificavano anche a casa in piccole vasche o col comodo di un palmento comunale. Fare il vino non è poi tanto difficile, avere i giusti contenitori è già aver fatto tre quarti del lavoro, poi un piccolo torchio. Era il vino arcaico un vino prezioso che riposava ancora negli angoli di piccole case senza energia elettrica e senza l’acqua corrente, oggetto di buona creanza e di onori di casa, che mai forse conobbe il legno e men che mai il vetro, anche le vasche dei palmenti per la frollatura delle vinacce era in muratura anche quando le quantità di uve da lavorare potevano starci benissimo un una tina di legno.

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E poi venne la generazione delle botti in legno, segno di un mondo che si muove, che rotola, che va altrove, che compra e vende, che viaggia sui nuovi autocarri che riducono le distanze tra chi coltiva, chi trasforma e chi consuma. Non che le botti in legno non esistessero già prima, ma con il legno il Salento ha avuto sempre un pessimo rapporto.

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La vigna è il sogno e la speranza di molti contadini dei primi anni del novecento, che delusi da tante colture sperimentali tra cui il gelso per il baco da seta, il caffè, il cotone, il lino, ecc.. cominciano ad espiantare l’ulivo malato o sano per impiantare filari di uva che promettono maggiori guadagni.  Ai vecchi campi impiantati a vite, col loro storico nome, ne vengono aggiunti altri, con nomi ancora nuovi e originali o semplicemente per quello che erano vigne, o con l’aggiunta del nome del proprietario. La vigna cominciò ad occupare le terre migliori, quelle più profonde, che sulla costa adriatica salentina sono rare, le migliori in assoluto quelle che un contadino per farne un apprezzamento le avrebbe chiamate appunto ” terre per vigna “. Terre da zappare profondamente all’impianto, da zappare poi sempre, piante da curare ogni giorno in attesa dei frutti: “Vigna e ortu, ole n’ommu mortu“. La vigna non si coltiva, si cura.

Strano il rapporto dell’ulivo con la vite. Nel settecento tra i filari della vite si mettevano a dimora le nuove piantine di ulivo aspettandone la crescita. Poi con la maturità l’ulivo si prendeva tutto lo spazio e la vigna finiva il suo ciclo, ma più spesso tra i filari volutamente larghi del nuovo uliveto si continuava a piantare di tutto: grano, orzo, legumi, ecc.. e si finiva per potare altissimi i rami degli ulivi per lasciar passare sotto comodamente l’aratro che doveva dissodare.  Era tale la penuria di buona terra in questo lembo di Salento che la coltura è stata spesso di condominio.

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Siamo ancora alla seconda generazione, la prima del novecento, quella che andrà a sbattere su una guerra mondiale, le peggiori epidemie parassitarie dell’ulivo, la fillossera della vite, la fame, i bastimenti carichi di emigranti tra cui anche una mezza dozzina di capifamiglia di Castro, che partono per le Americhe. La più grossa mazzata che abbia colpito le campagne dai tempi delle pesti nere medievali. Fuggono dalla Puglia al Veneto. Si imbarcano a milioni nei porti di Genova, Trieste, Palermo e Napoli. La fillossera attacca le radici della vite distruggendo completamente la pianta, chi aveva puntato sulla vendita del vino è distrutto.

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Il Salento meridionale langue ancora tra arretratezza industriale, assenza di ferrovie, di acqua potabile e abbondanza di malaria. Fiaccati dalla lunga guerra sui dazi doganali tra Italia e Francia (Guerra del Vino 1888-1898) con le esportazioni della seta grezza e del vino verso la Francia ancora bloccate,  ai contadini del Salento meridionale tocca di subire le angherie degli speculatori che approfittando dell’assenza di linee ferroviarie dominano tutto il mercato locale. L’embargo di vino verso la Francia durerà dieci anni, Crispi conta sul fatto che i francesi hanno assoluto bisogno di vino e di seta, ma la trattativa, con l’occupazione rapace del Marocco da parte dei francesi degenera, alcuni operai italiani emigranti vengono uccisi. Dopo la coltellata di Mussolini ai francesi nel 1940 questa è la peggiore crisi con il partner economico più importante che ha l’Italia.

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Ma la fillossera arriva anche in Italia. Il 1900 i vigneti subiscono un devastante attacco di peronospera e i contratti fatti con gli incettatori in primavera per consegnare l’uva a cinque lire il quintale non possono essere onorati e gli speculatori pretendono una penale almeno doppia. Nessun credito agrario, solo usura. Anche dalla nostra Puglia cominciano a partire i bastimenti per terre assai lontane. Nel 1903 è l’anno dell’attacco di brusca agli ulivi, la coltura predominante, e Gallipoli, già per altre ragioni, aveva perso buona parte del commercio internazionale dell’olio.  I vigneti, anche quelli più recenti impiantati al posto degli uliveti malati e dei seminativi meno proficui con la speranza di lauti guadagni per i bisogni di vino da parte dei francesi, restano infruttuosi prima bloccati dalla guerra dei dazi e poi dall’arrivo anche in Italia della fillossera. L’euforia diventa disperazione, il mondo contadino si muove sempre per imitazione, tutti alla fine fanno, copiandolo, quello che vedono fare proficuamente ai primi pionieri. Le esperienze dell’esportazione dei vini del Salento meridionale, già commercializzati dal Duca di Salve in Europa e in America, e qualche anno prima con le uve e i vini bianche verso l’Austria e l’Ungheria si interrompono. I vini pugliesi, spacciati per buona parte anche allora in tutto il mondo per vini del Reno e del Bordeaux, resteranno ancora anonimi per molti decenni.

Con questi argomenti il 1 giugno del 1903 l’onorevole Codacci Pisanelli prende la parola in Parlamento per perorare sgravi, aiuti e finalmente via libera per la coltivazione estesa delle nuove varietà di tabacchi orientali fino ad allora sotto il controllo e il monopolio dello Stato.

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Non va meglio per i grandi latifondisti. L’amministratore delegato dal tribunale di Napoli per la cura della eredità della baronessa di Castro ROSSI Colomba nel 1921 propone la vendita di tutto l’asse della proprietà della famiglia De Rosa e Rossi in provincia di Lecce per la cifra tonda di un milione di lire. Sono tutti terreni ricadenti nell’areale adriatico. Lo stato delle rendite agrarie vanno scemando di anno in anno “per la vecchiaia delle viti e degli alberi da fico e per la filossera che ha quasi completamente distrutti i vigneti. La rendita di un interesse bancario del 5% sulla offerta del Sig. GUGLIELMO Filippo da Vignacastrisi di un milione di lire renderebbe tre volte i proventi annuali di tutta la massa rurale della defunta baronessa.

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Il reimpianto dei vigneti in questa parte di terra salentina non avverrà perché questi diventarono dunque i campi del tabacco, la nuova fonte di sostentamento di un intero sistema sociale, drogato dalle sovvenzioni statali e comunitarie che implose ottanta anni dopo lasciando un vuoto nelle entrate di molte famiglie salentine,  rinfocolando nuova emigrazione. Non è passato neppure un decennio e il tabacco è già leggenda e racconto, come fu per la vite, il gelso, il lino e il caffè.

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Ogni cantina di casa ha una botte e le prime grosse damigiane in vetro, i vecchi orci, sono abbandonati nelle suppinne dei terrazzi. Le uve per il vino, invece, arrivano dai nuovi vigneti del Salento settentrionale, da Nardò fino a Sava e da tutto il brindisino. Il vino arreda le tavole, è un integratore alimentare, moneta aggiuntiva per pagare la giornata, è socializzazione. I consumi crescono, le campagne cominciano a produrne in quantità sempre più consistenti. Fino alla secondo dopoguerra, il vino è il principe degli alcolici, delle feste, delle cerimonie e dei pasti. Dorme nelle botti, distribuito nelle bettole di paese in damigiane di 5-10 litri senza cesto. Gli osti più esperti lo producono in proprio caparrando per tempo le uve nei vigneti tra Taranto, Brindisi e Lecce. Si sono attrezzati di alcuni palmenti in casa, di una scorta di botti e damigiane. Anche i privati lo auto producono associandosi e affittando i palmenti pubblici. Ci si associa per scegliere una buona partita di uva, si controlla la salute degli acini e si misura per tempo la percentuale di zuccheri che si sta accumulando nel succo. Alla vendemmia provvede il proprietario del campo con proprio personale, al compratore il camion che prima passa dal bilico per la misura della tara. Al paese l’arrivo del camion trova già tutti pronti: la vendemmia finisce col sole alto e i grappoli sul camion rischiano di cominciare a fermentare in modo incontrollato. Il mosto viene distribuito alle famiglie e ai soci in modo omogeneo: ogni spremitura e spillatura viene distribuita per le cantine del paese in modo da dare a tutti la prima spremitura o il cuore e la coda del palmento. Le portano casa per casa le donne in capase da 12-15 litri di creta travasandole direttamente nelle botti di legno.

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Il modello sopravvisse anche per tutto il secondo dopoguerra, ma il vino dovette cedere un po di palcoscenico alle nuove bibite, alla birra, ai superalcolici. Il vino cominciò a riposare ed essere venduto nei bottiglioni, col vuoto a rendere, poi nelle bottiglie. I travasi dai palmenti passarono dalla creta delle capase alla plastica e poi ai serbatoi con la pompa elettrica  sempre in plastica. In fondo a ogni garage un paio di botti ma sono ormai gli anni del pronto moda, delle scarpe confezionate, del tonno e della carne in scatola, i decenni del porzionamento, la fine dello sfuso e  della bottiglia di vetro da un litro in tavola. Un vino ancora comune, anonimo, senza etichette, nemico dei medici. Il sacrificio di tenere sane le botti di legno, prepararle al riempimento del mosto fresco, curarne la fermentazione e la prevenzione dall’acetosi, diventarono un lusso, come una perdita di tempo sembrò passare dal sarto per farsi un vestito. Dal “tutto paro” della cucina arcaica che cucinava velocemente in una unica fase quello da portare in tavola si passò al “tutto pronto” degli anni 70-80 dei nuovi negozi e supermercati.  Gli scandali del vino all’etanolo nel 1986 fece nascondere definitivamente dietro gli scaffali i vini venduti a damigiane.

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Oggi la nuova icona del vino è la bottiglia: rigorosa, elegante, cupa, incapsulata, con etichette a volte essenziali a volte imbarazzanti. Ma tutto quello che la tecnologia ha messo a disposizione dell’industria è stato sperimentato: dal tetra-pack allo pseudo distributore di benzina. Credo che oggi stiano crescendo generazioni che non hanno mai visto un vigneto, l’uva pigiata e l’odore del mosto. Sono  tanto perfette e lucide le nuove bottiglie che sembra che il loro contenuto sia distillato da chissà cosa e chissà in quale fabbrica. Smantellati i palmenti comunali, ridotte a legna da ardere le vecchie botti, entriamo nell’era delle aziende e delle cantine vinicole, ci pensano loro a conservare il vecchio nettare, a selezionarlo, ad invitarci a provare nuovi boccate. Non rimpiangiamo nulla di quel vino troppo artigianale, drogato di troppo bisolfito, sempre sul confine della spuntatura, male o per nulla travasato, sempre o troppo alcolico o sempre troppo annacquato.399534_4356411556444_1013771496_n

Modernissimi, figli  del glamour del fashion e del very cool, viziati dalle cantine vinicole, non conosciamo il colore del succo dell’uva appena spremuto, l’odore del mosto che fermenta, ne tanto meno riconosciamo una qualunque varietà di vite. Ridotti soltanto a utilizzatori finali dimentichiamo pure il nome delle vecchie vigne nei campi in cui, cento anni dopo,  facciamo solo passeggiate.

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.

Terminologia:

Uve da vino: Liaticu, Parmatiu, Bibitu, Marvasia Ianca e Niura, Niurumaru

Uve da pergola: Brunone, Litri, Minnivacca, Rosa, Fragola, ecc..




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