19 Maggio 2010 in Architettura, Blog

Le coperture piane in Pietra Leccese

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Le coperture piane in Pietra Leccese

La tecnica della copertura praticabile piana nel Salento è legata alla disponibilità in loco della notissima pietra leccese (Pietra di Cursi) affiorante su estesi bacini, in particolare nel territorio del capoluogo leccese e nei territori intorno al centro di Cursi da cui prende il nome in Mineralogia.

E’ una varietà di calcarenite con caratteristiche molto singolari, tra cui le ottime capacità di resistenza e di lavorabilità a scalpello. E’ facilmente riducibile in lastre di ridotto spessore con l’impiego di sega a denti di tipo tradizionale. E’ impermeabile, e nei secoli è stata utilizzata per realizzare vasche (per olio e acqua), pilette, mangiatoie, canali di scolo, ecc..

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Nel tempo, se non trattata coi moderni prodotti consolidanti o estetici, la superficie esposta si riveste di una serie di colonie di licheni che le conferiscono il caratteristico colore grigiastro. Anche la presenza di impurità (in particolare ossidi) può comportare la variazione nel tempo della colorazione, uniforme o amacchia, della patinatura superficiale  (colorazioni, brune, verdastre o rugginose).

Dal punto di vista pratico, ai fini della posa in copertura, le problematiche maggiori sono legate alla presenza di debolezze della matrice che possono provocare  scollamenti o fratture, sia per urto che per per i fenomeni di gelività.

La pietra lececse viene estratta in cave a cielo aperto in conci nel formato tradizionale di 25x35x50 cm, che ormai rappresentano lo standard di produzione della pietra leccese. I formati differenti, generalmente elementi monolitici di maggiore dimensione, per ante, colonne, mensole, ecc. sono in genere cavati solo su ordinazione. Il banco calcarenitco può presentare differenti impasti e consistenze, specie nella direzione della profondità, tuttavia la pietra maggiormente impiegata è quella sotto i primi strati  in genere poco resistenti (pilumafi).

Il concio estratto può avere un periodo di esposizione all’aria che favorisce il consolidamento della pietra. I cicli di produzione attuali, molto rapidi, prevedono l’utilizzo immediato dei conci estratti con alcune possibili problematiche negative.

Il concio è segato su un bancale semiautomatico con più lame parallele oscillanti sul lato dei 25 cm e secondo lo spessore desiderato si ottengono mediamente cinque  o sei lastre del formato 50×35 cm. La lastra, che conserva i caratteristici segni del taglio paralleli, viene indicata col termine comune nel territorio di chianca, da cui discendono una serie di termini tra cui chiancatu come sinonimo di pavimento lastricato con lastre di pietra leccese.

Nei vecchi edifici è facile ritrovare formati un po’ più grandi del corrente 50x35cm e spessori molto variabili che derivano dall’affettamento a mano di conci estratti  anch’essi a mano.

Evoluzione storica

La tecnica del rivestimento delle coperture solari con lastre di pietra leccese è relativamente recente e viene introdotta nell’edilizia alentina con la disponibilità di leganti idraulici idonei alla sigillatura dei giunti (chiamenti) che la tecnica richiede.

L’introduzione del cemento moderno, derivato dai numerosi brevetti tra cui il più affermato cemento Portland, è da attestarsi nel territorio salentino intorno ai primi anni del 1900. L’uso sempre più frequente del legante cementizio, dapprima limitato a piccoli interventi essenziali e poi sempre più impiegato in ogni settore della costruzione e produzione di manufatti, comporta una continua rivoluzione dei processi edilizi. Le vecchie pavimentazioni interne di lastre di pietra leccese, per esempio, vengono sostituite da battuti di cemento e graniglie (seminati), mentre le antiche coperture in cocciopesto (triula) vengono sostituite da lastre di pietra leccese giuntate con la nuova malta cementizia.

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I moduli architettonici non vengono stravolti, per cui alle pavimentazioni solari realizzate con un massetto di cocciopesto continuo (astricu) che avvolge gli estradossi delle tradizionali volte leccesi, si sostituisce uno strato di lastre rigide ben sigillate, con la sola complicazione di dover utilizzare piccoli elementi rigidi per avvolgere forme strutturali di fatto emisferiche.

Nella tradizione costruttiva, sempre conservatasi, la cupola della volta sottostante è sempre emergente rispetto ai piani generali del lastricato. L’emergenza (cozzo) deriva dalla ridotta ricolmatura dei rinfianchi rispetto all’estradosso dei conci centrali della volta. Nelle vecchie coperture in cocciopesto, non propriamente impermeabile, le pendenze con cui si avvolgevano le cupole centrali e i canali principali di scolo sono ancor più accentuate per impedire ogni ristagno di acqua, mentre nella tecnica a chianche le pendenze vanno riducendosi a pochi centimetri per metro, l’indispensabile appunto allo scorrimento delle acque. Le ragioni della conservazione della cupola estradossata (cozzo)  è probabilmente legata alla necessità di non sovraccaricare oltre il necessario la zona dei rinfianchi, operazione che  se da un lato stabilizza la spinta orizzontale della volta sottostante, dall’altro comporta una maggiore spinta laterale sui muri d’attico (parapetti).

La tecnica della copertura a lastre si è conservata anche nella evoluzione delle coperture da volta in muratura a solai piani con una evidente semplificazione della tecnica di posa non essendo necessario affrontare il rivestimeto dei cozzi sferici.

La posa

La posa del lastricato prevede uno studio preliminare delle vie di scolo. Nel passato, l’acqua piovana delle coperture era raccolta in ampie cisterne prevedendo dei bypass manuali per separare le acque di primo lavaggio, da quelle pulite e poi da quelle successive che si evitava di miscelare alle acque già chiarificate. Lo scorrimento alle tubazioni verticali di scolo era assicurato oltre che dalla posa a pendenza delle lastre anche dalla possibile imposta più alta delle volte più a monte. I vani interni  di minore diemnsione, come corridoi, stanzini, bagni, spesso venivano rialzati fino alla quota del lastricato principale, oppure soppalcati,  per evitare infossamenti.

Qualunque sia la copertura da impermeabilizzare (piana o a volta) è sempre richiesto un sottofondo immediatamente sotto la lastra di tufina o sabbia fine (asciutta),   necessaria per allettare a secco, una ad una, la chianca. La lastra, infatti, non è assolutamente incollata, ma poggiata su cinque-sei centimetri  di tufo che il posatore spande e livella il più uniformemente possibile coi soli polpastrelli. Nei punti più a monte, dove lo strato di tufina va a superare il massimo richiesto, per evitare fenomeni di eccessivo cedimento del letto tufaceo, si procede allo spandimento di sassolini di tufo (nozzulame) provenienti dalle cerniture, o argilla sciolta o altro materiale incomprimibile. Nelle ristrutturazioni, una volta divelta la chianca,  è facile notare un consolidamento (stabilizzazione calcitica) del tufo calcareo impiegato. Questa condizione,  se sembra un buon segno dal punto di vista strutturale, in realtà denota la permanenza accidentale di acqua al di sotto della protezione lapidea che ha favorito il fenomeno della stabilizzazione.

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La posa della lastra è completata dalla battitura con un martello di legno o gomma, fino all’abbassamento alla quota e alla pendenza giusta della singola lastra. Lo spazio tra lastra e lastra è di un centimetro abbondante (circa un dito). Uno spessore troppo largo aumenterebbe la fessurazione della malta di sigillatura, mentre uno troppo stretto impedirebbe la penetrazione e il corretto pistonamento della stessa.

La prima fase di posa prevede la stesa delle fasce di impluvio (mescie) e delle fasce perimetrali. Il resto della superficie è completato raccordando i piani guida delel fasce con una posa a correre sul lato dei 35 cm sfalsando opportunamente  i giunti. Le coperture eccessivamente ampie vanno divise in più aree inserendo piccoli muretti divisori per evitare fessurazioni dei giunti per le dilatazioni dei solai sottostanti. A volte il ricorso a piccoli muretti è necessario per indirizzare gli scoli. I muretti, come i parapetti solari, sono sempre protetti sulla faccia superiore da lastre di pietra (livellini). Nelle abitazione ove era previsto la sopraelevazione è facile vedere l’intera sezione muraria già pronta all’innalzamento.

L’operazione di stesa a secco e sigillatura è raccomandata, per ovvia opportunità, nell’arco della giornata lavorativa per prevenire disastri in caso di pioggia. Il passaggio dei lavoratori sugli spazi posati ma non ancora giuntati è assicurata da ponti e passarelle posti direttamente sulle chianche.

Alla stesa a secco segue una veloce bagnatura con acqua delle lastre. L’operazione comporta, oltre che il lavaggio del giunto anche l’abbassamento del fondo di tufina in corrispondenza del giunto stesso, realizzando una cavità di riempimento più ampia per la malta che in questo modo può colare e assestarsi anche al di sotto del bordo inferiore della lastra. L’umidità introdotta eviterà il rapido assorbimento dell’acqua di impasto della malta da parte della tufina secca.

La sigillatura (chiamentatura) ha avuto nel tempo varie modalità di esecuzione. Nei primi periodi, quando i costi della manodopera erano bassi, si procedeva infilando la pastina di cemento e sabbia nelle fessure e poi pistonandola fino a rifiuto con la lama della cucchiara. In questo modo tutta la cavità del giunto e anche il primo tratto del bordo inferiore erano riempiti con sicurezza. La pastina, una semplice malta di sabbia calcarea fine e cemento,  veniva impastata molto asciutta e solo la ripetuta pistonatura con la lama della cucchiara consentiva la risalita di una piccola quantità di sugo di cemento che permette a sua volta la lisciatura a punta di cucchiaia della faccia superiore.

Secondo la tradizione locale o le convinzione dell’artigiano, il giunto veniva superiormente o abbondato accavallandosi oltre lo spigolo superiore della chianca (una parte spolverava subito o andava persa con le prime gelature), oppure mantenuto leggermente sottosquadro. In questo caso la lisciatura a specchio della malta è assicurata da un tondino di metallo leggermente ricurvo fatto strisciare più volte nel canaletto non potendosi più lisciare con altro utensile.

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Questa tecnica è stata ripresa di recente dopo i pessimi risultati ottenuti da lavorazioni più veloci come la sigillatura a beverone con malte eccessivamente liquide. I dissesti negli anni sono spesso da imputare alla scarsa qualità della malta estremamente liquida introdotta nel giunto che restava porosa, fessurata e fragile.

La tecnica antica è stata migliorata con l’inserimento nella malta di fluidificanti (che permettono di ridurre ancora di più l’acqua di impasto e la fessurazione conseguente) e di altri additivi con capacità idrofughe.

Recentemente è invalso l’uso di inserire un battiscopa (10-15 cm) di pietra leccese sui risvolti dei parapetti.

In caso di presenza di murature di parapetto permeabili all’acqua, come i conci di cls pressovibrati, laterizio alveolato, ecc. è buona norma intonacare preliminarmente almeno la facciata interna del parapetto fino ad una altezza superiore alla quota finale del lastricato, per evitare che il passaggio di piogge nel parapetto possa riversarsi sotto il lastricato fluidificando eccessivamente lo strato di tufina secca e comportare il cedimento della chianca.

Dopo una sommaria pulizia con la scopa, non è prevista alcuna ulteriore cura nella fase di costruzione. Il raccordo ai pluviali è facile e può realizzarsi in vari modo secondo la posa del canale (incassato o  esterno). Nei fabbricati più antichi, se il canale di discesa non era realizzato all’interno della muratura verticale (in genere rivestito in pietra leccese),  veniva realizzato con una serie di embrici incollalti alla parete verticale. In alcuni casi dopo il foro nel parapetto l’unica accortezza era una intonacatura del piano di scolo per evitare l’infiltrazione della lama di acqua scolante nelle murature. La lavorazione aveva una leggera forma concava ed era detta a botticella (utticeddrha).  Non è raro vedere ancora canalette di pietra leccese con andamento quasi orizzantale incastrate alle murature per portare le acque fuori dalla verticale natuarle di caduta. Nel tempo si sono utilizzate tubazione circolari di lamiera zincata, poi in pvc e ultimamente in rame con grossi imbuti estetici nel punto di immissione.

Finita la sigillatura e la pulizia si bagnano nuovamente le lastre per tenerle umide e per riscontare, da subito, eventuali lastre fuori quota che formano spigoli o ristagni locali. Le lastre errate si riposizionano immediatemnete col giunto ancora fresco.

Il test di tenuta  complessivo  è rinviato alle prime piogge, anche se per un giudizio definitivo si deve attendere  la completa intonacatura esterna e le prime gelate invernali. Sui puretti d’attico, questa volta con malta di calce e cemento sono posati a correre i livellini sempre di pietra leccese. Questi presentano lunghezza standard di 50 cm e larghezza tale da garantire un’abbondanza di sporgimento sui due lati anche dopo l’intonacatura del parapetto. Al livellino si può dare una leggere pendenza trasversale, ma in molti casi è lasciato piano. La formazione di licheni e funghi,  favoriti dai ristagni di sporco e polvere sul livellino comporta lo scolamento di sporco sulle murature sottostanti per cui alcuni si pazientano di realizzare un taglio di gocciolatoio sul bordo inferiore. Lo spessore del livellino è variabile. Nei vecchi edifici può anche non esserci (non potendolo ben giuntare nel lato a correre col moderno cemento idraulico) e la sommità del parapetto era risolta o con stratificazioni di latte di calce o intonaco a sua volta tinteggiato. In alcuni casi anche l’intero lastrico di cocciopesto era scialbato a calce.  In genere il parapetto sul fronte stradale era più spesso (6-8 cm) mentre quello sui lati interni del minino possibile (4 cm). Recentemente il livellino viene posato nello spessore di 8 cm per pura ragione estetca e in molti casi viene scorniciato.

Dissesti e degradi

I principali dissesti della struttura si possono imputare a:

– scarsa resistenza alla gelività della pietra dovuta all’uso di lastre poco coese o con impurità locali. Negli anni passati i conci e le lastre derivate utilizzate per le coperture erano stoccate per molto tempo all’aperto, anche per più anni, e in questo modo era possibile scartare già  gli elementi deficitari. Con i ritmi attuali di  estrazione e commercializzazione, è possibile che siano montate lastre che manifestano i degradi solo con i primi inverni. In genere, se il danno (scollamento, rottura, ecc.) è limitato a pochi elementi si procede alla sostituzione puntuale. Un segno di scarsa consistenza del materiale calcarenitico è dato dalla nascita di muschi (velluto verde) che riescono ad estendere l’apparato radicale nella pietra poco dura e per questo impregnata in profondità di acqua che assicura la sopravvivenza al muschio stesso. In genere il fenomeno è maggiore nelle aree in ombra o poco ventilate che non favoriscono una buona asciugatura della copertura.

– errori di posa con zone a scarsa pendenza o ristagni

– deformazioni eccessive dei solai inferiori (che vanno prevenute la divisione in zone del lastricato)

– scarsa qualità della malta di sigillatura

– infiltrazioni di acqua che degradano la consistenza dello strato di allettamento in tufina

Cura

Un buon lastricato non ha bisogno di particolari manutenzione. Ha solo bisogno di ispezioni periodiche come una qualunque copertura solare. Se il fabbricato non presenterà dilatazioni o cedimenti che possano portare allo sgiuntamento locale (lungo caratteristici allineamenti) il lastricato conserverà nel tempo tutta la capacità impermeabile originaria. La formazione di colonie di licheni consolida la superficie esposta, confermando che lo strato superficiale esterno non viene assolutamente eroso e si sta conservando integro nel tempo.

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Da qualche anno è invalso l’uso di riprendere con vari materiali (resine, vernici, impermeabilizzanti) le fughe della sigillatura in operazioni periodiche e ricorrenti. Tuttavia, per quanto appena detto, se la malta del giunto era ottima e ben lavorata a mano , lo stato di conservazione del giunto sarà garantita, e a maggior ragione in profondità. Malte di scarsa qualità, in genere si sfarinano nei primi anni facendo apparire in superficie i granuli deillasabbia calcarea dell’impasto. Anche malte poco cariche di sabbia e troppo ricche di cemento possono risultare fragili, rompendosi spesso in lunghi bastoncini.

Se la fessurazione è profonda, ed è generalmente dovuta a deformazione degli orizzontamenti, solo il rifacimento del giunto riassicura la giusta protezione.   In questo caso  pur riscontrandosi una buona malta di sigillatura (che resta dfatti tenacemente attaccata a uno dei bordi della lastra  smontata) è necessario rifare il giunto sperando  nell’assestamento definitivo della parte di fabbricato interessata. Se si sospetta invece una scarsa qualità della malta utilizzata,   le prime fasi di scarificazioni dei giunti potranno confermare la bontà o l’insufficenza del materiale utilizzato. Nelle operazioni di rifacimento parziale o generale del lastricato sarebbe proficuo riutilizzare la vecchia lastra che ha confermato le sue qualità nel tempo indurendosi ulteriormente nella prolungata esposizione, tuttavia,  i tempi di  pulizia del bordo dalla vecchia malta ed altre ragioni di economia di cantiere portano alla posa di nuovo materiale coi rischi che comporta la posa di nuove lastre in caso di gelo.

La posa di un lastricato non richiede particolare competenza ed è realizzato sempre dall’impresa che realizza il rustico al completamento dello stesso. Non sempre si attende il tempo giusto per la posa della copertura solare che avviene sempre più frequentemente all’immediato spuntellamento del solaio inferiore. Sarebbe opportuno che la struttura realizzi le prime deformazioni elastiche dei solai e i primi assestamenti oltre che i ritiri naturali delle travature principali in cls armato.

Nel complesso, una buona copertura solare prevede la posa dello strato di coibentazione termica di circa 6-7 cm di un qualunque isolante (polistirene, poliuretano, polistirlo), un piccolo massetto di zavorra di pochi cm, non sempre necessario, lo strato di tufina e la chianca sigillata.

Non necessità di altro strato di impermeabilizzazione come guaine in quanto le stesse non consentirebbero la corretta traspirazione dei solai spesso umidi non tanto  per infiltrazioni esterne ma per l’assorbimento della condensazione dell’umidità degli ambienti abitati. La presenza di guaine al di sotto della copertura lapidea potrebbe peggiorare lo stato della tufina di allettamento in caso di infiltrazioni di acque e ridurrebbero i tempi di asciugatura. Problematici restano le zone di risvolto delle guaine stesse.

Eventuali infiltrazioni di acqua attraverso il giunto o le lastre danneggiate possono ripararsi immediatamente senza fare affidamento ad altre protezioni sottostanti che resterebbero poco ispezionabili. La porosità della lastra favorisce inoltre l’asciugatura completa del pacchetto superiore nei giorni secchi o ventosi.

Con la diffusione delle pulitrici ad alta pressione per uso domestico, nei periodi estivi è sempre più frequente osservare il lavaggio a fondo della patina grigiastra dei lastricati (presenza sempre positiva se non al solo personale gusto estetico). L’operazione non comporta particolari controindicazioni in quanto l’aggressione del getto a pressione può comportare l’asportazione solo delle parti inconsistenti della lastra, parti naturalmente destinate al distacco. L’operazione, inoltre, comporta l’osservazione diretta e completa dello stato della copertura e di tutti i giunti sotto la sollecitazione della pressione idrica .

Vantaggi

A parte la tradizione locale, la posa di un lastricato in Pietra di Cursi, che attualmente è realizzato al costo di 25-30 euro al metro quadrato, comporta alcuni vantaggi tra cui:

– praticabilità e uso della copertura.

– traspirazione al vapore acqueo dei solai inferiori.

– scarsa dilatazione della pavimentazione rispetto a pavimentazioni rigide come gres, ceramica, ecc.

– minore temperatura del piano di calpestio rispetto ad altri materiali come gres o ceramica.

Prospettive

Nonostante l’evoluzione delle tecniche costruttive, con la sola eccezione dei capannoni industrialil, la posa di pavimentazioni in pietra leccese resta la scelta scontata  per il completamento delle coperture terminali in tutta l’area  di diffusione della pietra lececse, non essendosi rilevata competitiva o nettamente superiore qualunque altra tecnica alternativa già utilizzata sul resto del territorio nazionale.

Caratteristiche Tecniche della Pietra Leccese

Carico di rottura a compressione semplice : 204 kg/cmq
Carico di rottura a compressione semplice dopo gelività : 160 kf/cmq
Carico di rottura a trazione indiretta mediante flessione: 47 kg/cmq
Grado di compattezza: c=0,636
Grado di porosità: n 36-40
Modulo elastico tangente : 129’670 kg/cmq
Modulo elastico secante:  92’130 kg/cmq
Peso per unità di volume: 1’730 Kg/mc
Prova di rottura all’ urto:  0,95 kgm
Resistenza all’ abrasione:  1,99 Ha
Resistenza a trazione: 23,7 Kg/cm




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