18 Luglio 2010 in Blog, Notizie

E’ qui la festa?

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Una cerimonia di matrimonio il 17 luglio non è cosa per tutti.

Se, poi,  per quella data è annunciato il picco di caldo della settimana più calda dell’anno conviene lasciare da parte i sentimenti e impegnare per l’occasione le forze più fresche e allenate della famiglia, io e il figlio più grande. Cerimonia in chiesa alle 18,00 in un paesino a 60 km da casa. Metà del pomeriggio passato a dimenticare la mattinata al mare a imparare la vela e l’altra metà di preparazione psicologica ricordando le peggiori cerimonie nuziali  della mia vita e, scherzando insieme, a rivedere le puntate su Youtube di Enrico Brignano dedicate ai matrimoni d’estate.

La vestizione, in queste occasioni, si svolge in assoluto silenzio. Nemmeno la moglie può permettersi il minimo appunto: non è nervosismo, insofferenza ma solidarietà e rassegnazione.

Il locale del ricevimento è uno di quelli a la page, di quelli che sulla carta spiazzano per originalità anche l’invitato più smaliziato, o almeno fanno credere. Giacca e cravatta sono d’obbligo. Si parte alle 18,00, si scommette per un rientro prima o dopo l’una di notte.

Viaggio scorrevole, memoria che corre. Ero piccolo e assieme ai miei coetanei gironzolavamo intorno ai cortei nuziali raccogliendo cacai e candellini. Poi con un po di faccia tosta si aspettava l’inizio della cerimonia  in vicinanza della nuova casa degli sposi e ci si ricavava quasi sempre  un panino con la mortadella preso dalle ceste, ai più grandicelli un liquore colorato, alla fine la speranza di un mezzo spumone. Si aspettava il primo ubriaco, immancabile, che avrebbe provveduto allo spettacolo. Musica poca ma  se c’era ed era musica da ballo, quella sera, qualcuno avrebbe abbracciato per la prima volta una donna.

Un garage, una grande stanza, un giardino, delle sedie, dei tavolami, alcuni tavoli. Le posate fornite dal bar del paese, come i liquori e i gelati. Finiti i festeggiamenti, spesso veramente una festa di paese, parenti e sposi pensavano a sparecchiare, ordinare e pulire.

Poi inventarono i ricevimenti al ristorante. Migliaia di nuovi sposi vi hanno oganizzato vigliaccamente la loro festa di nozze. Di festa c’era veramente poco, però si mangiava bene. Erano tempi che in casa non si conoscevano gli arrosti, i risotti e le diete e in famiglia si faceva a gara a essere scelti per andare al matrimonio.

Dopo trent’anni di feste di matrimonio, la festa si è definitivamente persa. E’ rimasta solo la cerimonia rituale  e banale, con furbi ristoratori che tentano di rianimarla inultilmente accanendosi con esiti quasi sempre contrari allo sperato.

La cerimonia di nozze è ormai la festa più vigliacca che si possa organizzare. Un pomeriggio ci  si siede ad un tavolo di un ristoratore che ha messo su un complesso di strutture tra le più kitch che si possa immaginare e si decide il menù, sempre quello. I tempi di cottura, l’aglio e la cipolla che non a tutti piace, la nonna senza denti, il cuoco sadico e un po di riminiscenze di francese, il risultato la solita sbobba girata nella solita salsa. Il giorno delle nozze, ci si presenta dopo la messa consegnando una massa indifesa di invitati alle strette regole del ricevimento e finita la serata si scappa con la torta rimasta.

Qualcuno  sospetta che le cerimonie di nozze si fanno solo per vendicarsi delle sofferenze subite da singoli nelle tante cerimonie del passato.

Questa volta la struttura del ricevimento è una delle tante strutture di campagna, a volte con qualcosa di originale come una masseria, un essicatoio, un viale, due colonne, magari solo un bel toponimo. Tenute, Masserie, Casini, tutte originali, tutte uguali. Per questo è d’obbligo stupire, inventare, e pare che l’ultima moda sia sperimentare sulla pazienza e la resistenza fisica degli invitati.

Parcheggiata l’auto nella polvere, due addetti in giacca con alamari e due hostess ci indirizzano verso l’unico percorso obbligato di oltre duecento metri a prendere uno stitico aperitivo. L’attesa davanti alla chiesa ha già stroncato le piante dei piedi. Si incrociano i primi invitati e partono spontanei segni di umana solidarietà. Pochi commenti, fa un caldo da cani e la solita battuta se fa caldo non si può proprio fare.

Si studia il campo di battaglia. Si cerca di capire se sarà consentito entrare nella fresca sala condizionata subito o tra un paio d’ore dopo l’arrivo degli sposi impegnati a fare una mezza dozzina di album fotografici. L’occhio gira vigile alla ricerca di quegli invitati che paiono più smaliziati dei luoghi, che conoscono le insidie degli orari e delle attese. Alcuni prendono direttamente la strada dei giardini e si stendono a pennichella sui divani, i più ignari sostano davanti al bar degli aperitivi in piedi su un piazzale arroventato per tutto il pomeriggio dal sole. Non so a chi dare ragione, e solo alla fine scoprirò che avevano ragione i primi. Un’ora in piedi alle nove di sera al caldo della sera più calda dell’anno in una struttura con trenta camerieri che ti salutano e ti sorridono non assomiglia per nulla ad una festa. Scoprire che il cugino del mostro di Firenze ha deciso gli abbinamenti ai taboli e che il tuo tavolo si chiama Tulum e quello del vecchio nonno che parla solo dialetto Rockfeller, ti conferma la più dura delle previsioni. Duecento invitati abbattuti alla buona sui muretti dei vialetti aspettano un segnale, un cenno, un gesto di misericordia. Più le strutture sono costose e ricercate e più il trattamento assomiglia ad un campo di concentramento. In sala si entra solo insieme agli sposi. Si sa che l’invitato non è capace di sedersi ad un tavolo senza la presenza dei festeggiati. Lo si fa entrare giusto quei pochi minuti per permettergli di fare l’applauso al corteo degli sposi con sottofondo di squallore musicale.

Questa volta però sarà più dura. Il carnefice ha scelto per stupirci ben tre operazioni di transumanza. Dal bar aperitivi alla sala antipasti e poi alla sala delle portate e poi ancora al porticato per la frutta e la torta. All’ultima transumanza qualcuno giura di aver visto Fantozzi salutarli dalla cripta della Madonnina in fondo ad un viale.

Trenta camerieri nella prima sala non bastano a portati in tavola un antipasto di mare. Bisogna prendersi il piatto e fare la coda come ad una normale mensa universitaria. Alla fine della coda scoprirai se hai riempito il piatto di schifezza lasciando le ultime cose buone in fondo al bouffet. Duecento mani toccano lo stesso cucchiaio per servirsi dai vassoi alla faccia dell’igiene. Duecento persone si calano sullo stesso vassoio lasciandoci cadere  sudore, capelli, forfora e chissà che altro. Fornelli accesi a pochi centimetri da tovaglie e tendaggi in una sala senza uscite di sicurezza. Per stupire ci hanno stupiti. Musica loffia, nel genere da matrimonio o da ascensore, la  più immonda che sia possibile. Il primo brano di Ottis Redding ci illude, fa niente se abbiamo una casa da 500 watt dietro la testa. Poi il peggio suonato al sax da un tipo che si guadagna la pagnotta girando tra i tavoli cercando il sorriso.

Alle dodici, nuova caccia al posto nella sala delle portate. Molti invitati hanno le sedie girate contro un muro che ricorderanno per tutta la vita. La prima portata è dopo le dodici. Solita sbobba. Incredibile, pure la pasta fatta in casa. La moglie chiama, vuole sapere se il piccolo se la cava ma  è impossibile parlare al cellulare per il livello della musica. Si fa amicizia col vicino di tavolo e una discussione sugli accertamenti fiscali di cui è specialista ti pare acqua fresca nel deserto.

All’una e mezza si viene cacciati dalla  sala. In piedi sotto un porticato a mendicare in coda un pezzo di torta e della frutta che mangiare in piedi con la giacca o la borsetta in mano è impossibile. Ormai siamo scafati, ce ne restiamo stesi sui divani del giardino sperando che i cocomeri restino immangiati e il ristoratore usi un modo originale per smaltirli in prima persona. Nessuna sedia o panca in giro. Nonne in piedi da mezzogiorno tentano di addentare sui tacchi un pezzo di torta, il sudore fuori dalle sale ricomincia a scolare. I fuochi d’artificio alle due di notte una inutile sofferenza per noi e per la quiete della notte.

Il ragazzo è ancora lucido, si è interessato a una bella mulatta amica di una mia lontana cugina. Non era difficile supporlo in quanto erano le uniche della sua età, ma parlano solo francese stretto. Gli do la busta coi soldi con cui ci siamo pagati la tortura e  ritorna con la bombiniera.

Sono le due e mezza, partiamo per il ritorno. Per strada le file di auto di chi va in discoteca, la tentazione di seguirli fortissima.




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